La mia vita in Egitto: la storia di Flora

Pubblicato il 23 aprile 2025 alle ore 15:15

Flora, 55 anni, vive da ormai vent’anni in Egitto con la sua grande famiglia araba. Napoletana doc, non perde però le sue radici italiane e il rapporto profondo con suo figlio, un amore che ha spinto entrambi a realizzare i loro sogni. Le domande che riceve rispecchiano spesso pregiudizi sul mondo arabo e sulle donne, ma la sua esperienza testimonia che è possibile vivere in un Paese diverso mantenendo la propria identità.

«Stavo attraversando un momento molto difficile» racconta Flora. «Avevo perso il lavoro e la mia amata Napoli viveva anni complessi. Ero in piena crisi esistenziale, quando mi offrirono lavoro a Sharm el-Sheikh. Mi trovai quindi di fronte a una decisione che mi costrinse a rimettere in discussione la mia intera esistenza. Da tantissimi anni viaggiavo in Egitto e si può dire che ero ormai di casa, ma ben diversa era l’idea di trasferirmi senza avere certezze. Fu un momento di grande paura: paura della solitudine, paura di non farcela, paura di fallire. Fin da bambina avevo sempre avuto grandi responsabilità, ero diventata anche mamma molto giovane e avevo cresciuto mio figlio da sola. L’idea di lasciarlo mi terrorizzava.

Sono sempre stata una donna profondamente legata alla famiglia, alle radici, alla mia terra e al mio popolo, che rappresentano una parte fondamentale della mia identità. Lo stacco da tutto questo rappresentava un dolore atroce che non ero in grado di affrontare, ma furono l’amore e l’immenso appoggio di mio figlio e di mia madre che mi permisero di vivere quella scelta con maggiore serenità. Sì, fu soprattutto mio figlio a trasmettermi la forza di scegliere per la prima volta per me stessa.

Tutte le scelte della mia vita erano sempre state prese in funzione degli altri, e mi resi conto che pensare a sé stessi, quando non siamo abituati a farlo, può essere davvero difficile. Così, nonostante la paura, scelsi di partire per l’Egitto. E non sono più tornata.

Oggi, l’Egitto è la mia casa. Vi racconto la mia storia dal mio appartamento nel mio amato Sinai, perché troppe sono le cose sbagliate che si dicono in Italia su questa terra».

 

Il primo incontro con il destino.

Il primo viaggio di Flora in Egitto risale a molti anni prima, quando suo figlio è un bambino e lei lavora in Italia. «Era tempo di vacanza e fu il mio compagno a decidere la meta. La parola “Egitto” mi affascinò subito. Appena scesa dall’aereo, fui avvolta da un calore che mi fece sentire a casa e in quel momento il pensiero della Napoli che cominciava a farsi fredda sembrò un ricordo lontano. Sharm el-Sheikh all’epoca era ben diversa da come la conosciamo oggi. L’aeroporto era piccolissimo e somigliava a un deposito di autobus, la città era ancora dominata dal deserto, le strade non erano ancora asfaltate e c’erano tantissime palme. Il cielo immenso, senza mai una nuvola, era blu cobalto intenso, a contrasto con il rosso delle montagne rocciose del Sinai. C’erano molti cantieri in costruzione, e la maggior parte delle persone erano uomini beduini e egiziani che lavoravano principalmente nel settore del turismo. Non si vedevano ancora donne egiziane in giro, le famiglie restavano al Cairo. Quando entrai per la prima volta nel Mar Rosso fu come scoprire un altro mondo: ero in una favola, in mondo da cartone animato, dove pesci coloratissimi si muovevano come in una danza magica e silenziosa».

 

Il souvenir dell’ignoranza.

«Ricordo come se fosse ieri il rientro da quella prima vacanza a Sharm: in aeroporto vidi centinaia di persone frugare nei loro bagagli e gettare il corallo nell’immondizia dopo aver visto i cartelli di divieto che avvertivano della presenza di dispositivi finalizzati all’identificazione di materiale organico. Come se servisse un cartello per far capire alle persone che il corallo non si porta via! Tutte quelle persone nemmeno lo sapevano che i coralli sono animali. Animali uccisi e gettati nei bidoni della spazzatura. Quella scena mi impressionò fortemente. Per questo mi batto per il rispetto e la salvaguardia del mare».

 

Amore contro Egitto: ho scelto l’Egitto.

«Tornata in Italia comprai un computer e inizia a documentarmi su tutto ciò che riguardava l’Egitto. In Italia c’era ancora la lira italiana e non esistevano ancora i social network di oggi, le connessioni erano lente, ma iniziavano a nascere i primi blog e ci avvicinavamo all’era di Skype. Questo mi permise di rimanere in contatto con quel mondo. Tutto questo iniziò a infastidire il mio compagno e in quell’astio scelsi l’Egitto».

 

L’amore si scopre showaya showaya, piano piano.

«I miei viaggi diventarono sempre più frequenti e più lunghi. Mio figlio veniva sempre con me e si divertiva tantissimo. Pur essendo piccolo, camminava da solo per le strade, e io glielo lasciavo fare senza paura. Sharm accoglieva bambini di diverse nazionalità che giocavano tra loro, imparando lingue “sconosciute”. Trascorrevamo notti intere con amici beduini ed egiziani scoprendo le reciproche culture e, come i nostri bimbi, le reciproche lingue.

Il nostro legame con questa terra cresceva, diventando sempre più profondo e affettuoso. Avevamo abbandonato gli alberghi e da anni affittavamo casa. Iniziarono timidamente ad arrivare dal Cairo le prime famiglie e io iniziai ad avere anche le prime amiche con le quali iniziai a imparare un po’ di lingua araba. Era uno spasso scambiarci ricette e segreti».

 

Un privilegio per pochi.

Durante quei lunghi anni fatti di viaggi continui, Flora incontra anche quello che diventa il suo primo marito egiziano. Dopo la separazione, perde i contatti sia con lui sia con la sua famiglia, ma ancora oggi conserva rapporti profondi con gli amici che lui le ha presentato. A differenza della maggior parte degli egiziani, lui possedeva già il passaporto, aveva studiato all’estero, quindi non ci sono state complicazioni per il matrimonio e convivono anche in Italia. Ma non per tutti gli egiziani è così semplice.

 

Un ponte tra Italia e Egitto.

«Da tempo partecipavo attivamente a diversi blog. Mi connettevo sia dall’Italia, sia dagli Internet Point quando mi trovavo a Sharm. Fu così che strinsi amicizia con Amal, una giovane ragazza egiziana che studiava e parlava italiano, che mi parlò di un suo amico che stava attraversando un periodo terribile della sua vita, e mi chiese di aiutarlo. Anche lui studiava italiano, così dall’Italia mi misi in contatto con Mohamed, Faraone, che divenne il fratello di mio figlio Manuel».

 

Il mio figlio egiziano.

«Skype era sempre acceso. Faraone parlava perfettamente l’italiano e anche molte altre lingue, era dotato di un’intelligenza fuori del comune. Amava il teatro, la musica, la fotografia. Suonava il violino e passavamo ore ad ascoltarlo. Non era proprio bravo, ma lo ascoltavamo ugualmente. Il rapporto che strinse con Manuel era intenso. Tutte le chiamate si aprivano con: “Yaaa mamma, ci sei?”, e la mia risposta era sempre: “Yaaa faraone, ci sono”. Era pieno di vita. La stessa vita che però si stava spegnendo. Faraone era malato, ma era la persona più credente che io abbia mai conosciuto, forse per questo non si lamentava mai. Pur soffrendo di dolori terribili, si inchinava ogni giorno a terra per pregare Dio e sorrideva sempre contagiando tutti con la sua allegria.

Ogni volta che andavo al Cairo, la mia prima tappa era lui, spesso ricoverato in ospedale. Con l’autorizzazione dei medici, lo portavo fuori e lui mi ripeteva sempre: “Ya, mamma, non abbracciarmi e non baciarmi in pubblico!” e mi faceva sorridere, perché il mio modo di esprimermi – da buona napoletana – è fatto anche di calorosi abbracci, ma mi rendevo conto che quello era per lui un modo nuovo di esprimere l’amore.

Faraone era circondato da amici fantastici che gli organizzavano vivacissime feste di compleanno in ospedale, la sua camera era piena di vita, sorrisi e speranza».

 

Amore contro burocrazia.

«Iniziarono a nascere i primi social, si avvicinavano gli anni della Primavera Araba, la rivoluzione egiziana, e lì si allargano le mie conoscenze in Egitto. Cominciai anche a consultarmi con medici e amici italiani in cerca di un miracolo. Aprii il mio primo gruppo Facebook, dove Faraone divenne il protagonista amato da tutti i membri con il suo post quotidiano: “Yaaa mammaaa”. Iniziò a parlare pubblicamente dei suoi studi e dei suoi sogni.

Sì, pur sapendo che aveva poco tempo, continuava a sognare e studiare con impegno. Raccontava del suo amore immenso per Dio e spiegava che è giusto essere tristi perché tutto ciò che accade è voluto da Dio.

Nel gruppo c’erano anche molti professori di Faraone, e il destino volle che quello di italiano fosse napoletano come me. La tesi di laurea di Faraone fu dedicata a Napoli, a me e a mio figlio: la sua famiglia italiana.

I medici mi dissero di portarlo in Italia per tentare nuove cure. Io feci qualunque cosa, mio figlio aveva già iniziato a riorganizzare la sua cameretta per fare spazio per l’arrivo di suo fratello, ma l’iter di burocrazia per i documenti fu infinito e Faraone non arrivò mai in quella cameretta. Se ne andò. Sulla pelle porto tatuate quelle parole: Ya mamma».

 

Il trasferimento definitivo.

«Nonostante metà del mio cuore fosse quindi in Egitto, lasciare la mia famiglia in Italia quando mi fu offerto lavoro a Sharm mi riempì di rabbia e paura. È vero, ero di casa ormai, tuttavia c’è una grande differenza tra trascorrere dei periodi in un Paese e viverci.

Mi offrirono lavoro nel settore dell’estetica dove avevo enorme esperienza. Avevo iniziato a lavorare a tredici anni e avevo conseguito numerose scuole di specializzazione e diplomi. Si trattava di una catena di centri benessere con sette sedi sparse per la città. Facevo parte di uno staff che indossava una divisa orribile che detestavo, ma che rispettavo perché mi dava da vivere.

Le regole erano semplici:

non parlare con nessuno, non salutare nessuno, non guardare negli occhi nessuno, non toccare gomiti, ginocchia, palmi delle mani, non toccare praticamente nessuna parte del corpo. Il dettaglio divertente? Facevo parte del reparto massaggi».

 

I massaggi no-touch.

«Ogni giorno era una discussione continua con il mio capo. Immaginate me, donna-scugnizza-napoletana e competente in materia, a discutere con lui, uomo–musulmano-egiziano, spiegando che per me era un problema insormontabile non poter aver un contatto fisico, seppur la religione del Popolo lo vietasse, poiché ritenevo professionalmente assolutamente sbagliato eseguire massaggi senza coinvolgere determinati muscoli. Niente. Vinse lui e quelli che io battezzai i massaggi no-touch.

Durante una riunione notturna avvenuta tempo dopo – a quei tempi Sharm non dormiva mai –, dopo aver per l’ennesima volta impiegato tutta la mia pazienza e le mie energie per spiegargli che stavamo commettendo un errore, mi diede finalmente ragione. Vinsi io e fu così che decise che era opportuno che andassi nella città del Cairo per partecipare a un corso di aggiornamento. Avrei quindi iniziato un nuovo capitolo della mia vita dividendomi tutte le settimane tra Il Cairo e Sharm el-Sheikh. Quello sarebbe stato solo l’inizio della mia vita lavorativa con uomini arabi che considero amici e famiglia».

 

Tutto il mondo è paese.

«Vivere al Cairo mi fece sentire a casa. C’erano famiglie enormi e per me, che provengo da una città dove le famiglie sono immense e piene di bambini, fu davvero come tornare a Napoli. Passeggiavo per le strade osservando panieri calati dai balconi, lustrascarpe a ogni angolo delle strade, venditori di pannocchie, il Nilo, edifici mastodontici, e da sfondo loro: le piramidi. Nella mia testa sostituivano il Vesuvio. Ero a casa!

Quando ero a Sharm, invece, era una corsa contro il tempo: mentre mi trovavo a Naama Bay, ricevevo una telefonata dove mi dicevano che avevo un cliente a Namq, dall’altra parte della città, e via: prendi la borsa e salta sulla macchina dell’azienda! Il mio autista mi aspettava per catapultarmi in un’altra sede anche più volte al giorno. Si iniziava alle 8:00 del mattino e se finiva alle... non l’ho mai capito.

Di giorno in giorno cresceva sempre più la mia amicizia con il mio autista. Ayman era un uomo beduino, mi parlava della sua famiglia, delle usanze del suo popolo, dei deserti, delle notti sotto le stelle, mi immergeva nel suo mondo con i suoi racconti e mi dava anche lezioni di arabo. Un giorno tirò fuori un vecchio molle quaderno e una penna e, quasi sgridandomi, disse che era giunta l’ora di imparare seriamente, perché lui voleva che io capissi bene ciò che stavo vivendo».

 

L’ ingresso nel mondo beduino.

«Può sembrare assurdo, ma nel mio lavorare tanto e non avere mai tempo, trovai comunque il tempo per andare regolarmente nei villaggi beduini con Ayman, dove venni accolta come una di famiglia.

Nei tragitti di trasferimento da una sede all’altra, mi ritrovai a parlare ogni giorno al telefono con la mamma di Ayman che mi coinvolgeva in tutte le dinamiche familiari, e chiaramente il più delle volte non capivo niente, ma per non offenderla ripetevo sempre: “mashy”, ok. Mi regolavo sul suo tono di voce e sulla base di quello cercavo di capire se l’argomento era delicato o se invece era divertente. Non ero troppo stanca fisicamente, ma lo ero mentalmente. Non c’era un filo logico da seguire per ogni cosa dalla A alla Z. Il punto è che non c’era un filo logico in nulla. Non capivo niente, ma non per la lingua, bensì per il loro modo di organizzarsi e di vivere, di pensiero, di azioni. La mia normalità era diversa dalla loro normalità.

Ayman divenne ed è ancora il mio migliore amico. Oltre i villaggi beduini, iniziò a portarmi anche nei canyon e nei deserti».

 

Nel nulla trovi il tutto.

«Il cielo nel deserto è diverso, è speciale. Non è solo per la bellezza delle stelle. I beduini mi hanno insegnato a leggerle. Ogni volta che le guardo, mi sento piccola, ma anche parte di qualcosa di grande. Ma non è solo per le stelle, è per tanto altro. Nel deserto c’è un silenzio che ti parla. Qui le parole hanno un peso enorme. È proprio vero: se hai bisogno di ritrovarti, i deserti ti ritrovano. Spesso arrivano delle piccole volpi, come per tenermi compagnia, o forse per darmi il permesso di stare in quel Paradiso, e io mi ritrovo a sorridere da sola nel mio nulla».

 

La mia famiglia egiziana.

«In Egitto ho trovato un figlio, una mamma e un papà egiziani che ho perso ma che continuo ad amare profondamente nel mio cuore. Oggi vivo per metà a Dahab con il mio secondo marito e la mia famiglia egiziana e l’altra metà a Sharm el-Sheikh dove lavoro e condivido casa con la mia migliore amica che considero una sorella. Con lei condivido non solo casa, ma parte delle mie giornate, viaggi, sbalzi di umore. Ci assomigliamo molto, abbiamo la stessa sensibilità, gli stessi difetti».

 

L’Egitto che nessuno conosce.

«Non ho smesso di occuparmi di benessere, a Sharm ho infatti una cabina dove continuo a dedicarmi alla bellezza delle donne ma, con gli anni, e in collaborazione con la mia famiglia araba e altri amici beduini ed egiziani, ho iniziato a organizzare tour per far conoscere a turisti e viaggiatori le bellezze d’Egitto quasi del tutto sconosciute. Esistono infatti luoghi che gli italiani nemmeno immaginano e che io amo immensamente. Ci organizziamo con zaino in spalla e viaggiamo con mezzi privati o pubblici e via! Tra questi organizziamo anche gruppi di meditazione nel deserto, compreso il meraviglioso White Desert, e a breve sarò orgogliosa di iniziare un nuovo progetto affittando case a Dahab per soggiorni sia brevi sia lunghi!». Facebook Sharm a modo mio

Un'europea nel mondo arabo.

«Vivere in un contesto diverso, come quello arabo, può essere interpretato in modo diverso da chi osserva dall’esterno, ma la mia esperienza dimostra che non è solo una questione di vestiti o regole culturali, ma di rispetto reciproco, consapevolezza e integrazione.

Ho tantissimi amici, sia beduini sia egiziani – specifico la differenza perché loro stessi si considerano etnie totalmente differenti, e in effetti lo sono –, sono stata accolta in tante famiglie e lavoro con tantissimi uomini. Fatta questa premessa, e fatta anche la premessa che lavorando nel settore dell’estetica tengo molto alla mia immagine e alla forma fisica, non ho mai avuto problemi rispetto al mio essere donna, al mio modo di essere, al mio modo di pormi o di vestire e non ho dovuto cambiare niente di me stessa, perché ho sempre rispettato le regole fondamentali della buona educazione».

 

I falsi miti.

«Quando si va in un mondo arabo non è che ti devi comportare come un arabo, ti devi comportare come una persona corretta e educata, come in un qualunque altro contesto. Leggo tante di quelle sciocchezze che mi viene da ridere, o da piangere. “Attenzione”, “Le bionde sono in pericolo”, “È pericoloso prendere i mezzi pubblici per una donna”, “Vi violentano”, “Vi chiudono in casa”, “Vi tolgono la vostra libertà”, “Vi faranno coprire”, “Vi schiavizzeranno”. Questa diceria che per la donna europea sia difficile vivere in un mondo arabo, io non l’ho mai vissuta. E ci sono immersa.

Spesso ricevo domande o osservazioni che rispecchiano pregiudizi o idee superficiali, ma rispondo con ironia, dimostrando maturità e la capacità di non cedere alle provocazioni e ai preconcetti. La mia esperienza testimonia che è possibile vivere in un Paese diverso mantenendo la propria identità.»

 

Bikini contro burkini.

«Io con le mie amiche egiziane, velate o non velate, non ho mai avuto difficoltà e non mi sono mai sentita fuori posto. Andiamo al mare insieme e io indosso il mio costume, loro indossano il loro: ovviamente sono costumi diversi. Nessuno mi ha mai impedito nulla, non ho mai avuto nessun richiamo, perché il mio indossare un costume più sgambato o un pantaloncino corto non è esibizionismo o provocazione, fa semplicemente parte della mia cultura: sono cresciuta così, li indosso perché sono abituata così. O forse sì, qualche richiamo l’ho avuto, ma da persone europee».

 

Non ascoltare il “per sentito dire”.

«Molte volte sono stata ripresa da italiani per il fatto che indosso costumi non idonei e poco rispettosi, e questo mi fa molto ridere perché nessuno nel mondo arabo, nonostante la confidenza per poterlo fare, mi ha mai mostrato disappunto. Sharm è una località turistica dove gli arabi sono abituati al modo di vestire europeo e c’è rispetto. È ovvio che se vado a Marsa Matrouh al di fuori dei villaggi turistici, dove invece le spiagge sono frequentate da famiglie egiziane più conservatrici dove è impossibile vedere un bikini – ma questo il tuttologo da tastiera non ve lo dice perché non lo sa! –, il mio abbigliamento sarà diverso. Si chiama rispetto e educazione nel riconoscere il contesto».

 

Saper riconoscere il contesto.

«Il mio abbigliamento può cambiare a seconda delle circostanze in cui mi trovo, per rispetto e educazione, come avverrebbe anche in Italia e in altri luoghi del mondo, dove alcuni contesti richiedono un decoro e una formalità differente. Tu, in Italia, entreresti in un museo in babydoll? Non credo. Dipende sempre dal contesto e dall’intelligenza individuale. È ovvio che se entro nelle loro case non lo faccio in pantaloncino corto, o se devo prendere un mezzo pubblico non indosso una minigonna. Se esco di sera e vado in un locale del Cairo con le mie amiche egiziane, il mio abbigliamento non sarà lo stesso che indosserei con le stesse amiche a Sharm, ma non per me: per loro. Non vorrei mai infastidirle attirando potenziali sguardi anche su di loro».

 

Gli occhi sono fatti per guardare.

«È anche normale e non c’è niente di “così terribile” che una donna europea in un contesto arabo possa essere guardata – anche qui entro i limiti della buona educazione dall’altra parte. Può accadere per molte ragioni che non devono per forza essere sempre negative, giudicanti o maliziose. Un uomo può guardare l’europea per tante ragioni: vuoi perché è bella, vuoi perché è semplicemente diversa, vuoi perché finalmente gli uomini possono semplicemente guardare una persona senza dover essere richiamati e senza essere giudicati in haram, peccato».

 

La scelta delle persone vale in tutto il mondo.

«Poi molto dipende anche dal compagno e dalle amicizie che scegli, ma questo non dipende dall’essere musulmani, dipende dal carattere individuale. È importante capire che l’essere europea in un mondo arabo non deve comportare per forza restrizioni o limitazioni alla propria identità, piuttosto mantenere un equilibrio tra rispetto per la cultura locale e la propria libertà individuale. Con la famiglia di mio marito non ho mai avuto nessun problema. Cammino a braccetto con mia suocera e le mie cognate per andare a fare la spesa: loro velate, io vestita all’europea».

(Leggi anche l'articolo Viaggiare grazie a Trusted House Sitters: la storia di Miriam)

Curiosità sul mondo arabo.

Tè beduino.

«È dolce e speziato, viene servito con calma, perché non è mai solo semplice tè; è il tempo che una persona ti sta donando, cosa oramai dimenticata nel mondo europeo. Qui il tè è molto più di una bevanda. Offrire una tazzina di tè è un modo per dirti: “Sei uno di noi”».

 

Tessuti.

«I tessuti sono bellissimi e ognuno racconta una storia legata alla sua origine, ogni motivo è un viaggio nel tempo e nelle tradizioni. I motivi geometrici sono un’eredità islamica, e rappresentano l’armonia dell’universo e la perfezione della creazione di Dio; i motivi floreali sono simbolo di vita e fertilità, rappresentano la bellezza del mondo ma anche la sua fragilità. È come se ogni tessuto fosse un libro che ci racconta chi siamo e cosa siamo stati».

 

Cibo.

«Il cibo non è solo cibo, ma un gesto d’amore. Il pane, per esempio, è chiamato con il nome sacro aish, che letteralmente in arabo significa “vita”, rappresenta un dono divino di solidarietà e di rispetto, è una benedizione che connette le persone. Quando ti invitano a mangiare, non importa chi sei o da dove vieni, sii grato perché sei davvero il benvenuto».

 

Tempo.

«Il tempo scorre lento. In Egitto nessuno ha fretta. Si vive con calma, si assapora ogni momento. In tanti penseranno: “Perché non hanno nulla da fare!”. No, non è vero. Tutti hanno da fare, ma il tempo per le persone lo si trova sempre, e quando si regala il tempo, o quando ti viene regalato, è un gesto profondo che va oltre la semplice compagnia, perché si crea un legame che tocca l’anima. È un atto di vera connessione dove cuori ed energie si uniscono in una grande energia spirituale. Prendersi cura della persona e dedicargli attenzione e ascolto arricchisce l’anima di tutti».

 

Generosità.

«Ho visto persone con una generosità straordinaria pur avendo poco o nulla. In Egitto è normale offrire anche l’ultimo pezzo di pane con il sorriso, senza aspettarsi nulla in cambio. Questo è qualcosa che mi tocca ogni volta l’anima e che mi riporta indietro a quando ero bambina nella mia vecchia Napoli. Sono fiera di dire che anche la mia mamma è sempre stata così. Pur avendo poco, veniva sempre prima chi aveva meno di lei».

 

Casa.

«Quando si entra in una casa si saluta anche quando non c’è nessuno. O meglio, qualcuno c’è, ma non lo vedi. La casa è pronta a proteggerti e custodire storie, ricordi e sentimenti. Questa credenza è presente in tante altre culture, seppur in modi diversi legati alle proprie tradizioni, ma alla fine il concetto è sempre uno: la casa ha un’anima».

 

Datteri.

«Quando qualcuno ti offre dei datteri, potrebbe sembrarti solo un piccolo gesto, ma in realtà non ti stanno semplicemente offrendo un frutto; il dattero è infatti carico di grande significato. I datteri, in Egitto, sono considerati simbolo di abbondanza, di buona fortuna, di benedizione. Offrire un dattero a qualcuno è un gesto di calore e generosità per far sentire l’ospite benvenuto e onorato di far parte della comunità. Quindi, d’ora in poi, quando accetti un dattero sii consapevole e riconoscente: sei uno di noi».

 

Condivisione.

«Qui ogni momento viene condiviso: nascite, matrimoni, feste, non sono quasi mai cose private, la felicità, come ogni cosa che si possiede, si condivide con gli altri. Ho partecipato tantissime di queste celebrazioni e ogni volta mi sono sentita accolta e parte di qualcosa di più grande. L’altruismo, l’umanità e la condivisione rafforzano e rendono più profondi i legami umani, nutrendo l’anima e creando una connessione che va oltre alle difficoltà materiali».

 

Viaggiare è scappare dai problemi?

«Trasferirmi all’estero non è stato un modo per fuggire dai problemi, ma l’unica opzione possibile in un momento complesso della mia esistenza. La mia decisione non è stata dettata da amore o voglia di evadere. Non c’era nessun “habiby” nella mia vita, nessuna relazione o infatuazione. Inoltre, non era affatto garantito o scontato che la proposta di lavoro potesse rivelarsi positiva. Era qualcosa di lontano e mi spaventava, anche se dopo, quando sono sparite tante nuvole, mi sono poi resa conto che la distanza non è così tanta.

Ho capito che a volte, per risolvere ciò che ci pesa, è necessario fare un salto, affrontare l’ignoto e aprirsi a nuove opportunità. Non si tratta di scappare, ma di trovare una via che permetta di guardare alla vita con occhi nuovi, di crescere e di affrontare le difficoltà da una prospettiva diversa. Sebbene il cammino possa essere pieno di sfide, è anche quello che permette di evolvere e di trovare un nuovo equilibrio».

 

Una mamma può essere tutto ciò che vuole.

«Ho avuto una mamma giovanissima ma fortissima che mi ha insegnato i valori della libertà, della resilienza, dell’umiltà e della dignità, e mi ha sempre regalato un sorriso. Ho cercato di trasmettere gli stessi valori a mio figlio, educandolo all’amore per Dio e al rispetto per gli altri. Il nostro amore è sempre stato la nostra forza. All’inizio ho sofferto tanto per la nostra separazione, ma è stato lui – forse proprio grazie alla mia educazione – a incoraggiarmi, e oggi la tecnologia ha accorciato la distanza. Anche mio figlio, grazie al mio continuo appoggio, ha inseguito e realizzato i suoi sogni, ha studiato ed è diventato chef specializzato in cucina sushi. Non è un semplice chef: per il secondo anno consecutivo, a soli trentun anni, ha vinto un meritatissimo premio nel campo della ristorazione ed è un papà meraviglioso, e io sono una mamma e una nonna orgogliosa del mio Manuel».

 

Definizione parola viaggiare.

«Viaggiare è un viaggio nell’anima, oltre che nei luoghi: è scoprire il mondo, ma anche superare le proprie paure e abbracciare il cambiamento. Al tempo stesso, è scoprire e ritrovare le proprie radici in altri luoghi. È imparare a vivere con il cuore aperto e vedere la bellezza ovunque, soprattutto nelle cose più semplici».

 

Cosa consiglieresti a chi vorrebbe partire ma ha paura?

«Se hai paura di cambiare vita, sappi che anch’io, quando sono partita da Napoli, non avevo un sogno, ma solo tanta paura. Paura di lasciare mio figlio, paura di affrontare qualcosa di così grande e sconosciuto. Ma, passo dopo passo, quella paura si è trasformata in un cammino che non avrei mai immaginato. L’Egitto mi ha insegnato il valore della comunità, della condivisione e della resilienza, valori che avevo già appreso nella mia “vecchia” Napoli e che qui ho avuto modo di continuare ad allenare.

Restare qui è stata la mia risposta alla vita, un modo per trasformare le difficoltà in possibilità. Ogni scelta che ho fatto, anche le più difficili, mi ha insegnato che la paura non va evitata, ma affrontata. È proprio attraverso la paura che possiamo scoprire quanto siamo forti. Non lasciare la paura che ti fermi: fai quel salto, segui il tuo cuore. Solo così scoprirai che spesso dietro la paura c’è qualcosa di meraviglioso che ti aspetta. E questa frase l’ho scritta anche sul muro di casa mia: “Bastava saltare”».

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